L'artista inglese si è spento ieri all'età di 69 anni. In oltre 50 anni di carriera ha pubblicato album capolavoro che hanno rivoluzionato la storia della musica mondiale.
David Bowie è morto ieri a Londra all’età di 69 anni a causa del cancro che lo aveva colpito da diversi mesi. Genio non solo della musica ma dell’arte in tutte le sue forme, il Duca Bianco ci spiazza così, uscendo di scena subito dopo averci regalato l’album “Blackstar”, suo ultimo capolavoro. Scherzo del destino, o forse , coup de theatre che ci insegna come della vita non vada mai sprecato un solo attimo e come ciascuno di noi debba esserne protagonista, coraggioso, libero e appassionato, fino all’ultimo respiro. E’ così che ha vissuto David Bowie: ci ha fatto emozionare, riflettere, ballare, meravigliare con le sue canzoni sempre innovative, spingendosi là dove nessuno avrebbe mai osato arrivare. Un artista dai mille volti, camaleontico e inafferrabile, ma padrone di una sola anima. Oltre 50 anni di carriera, oltre mezzo secolo di ricerca, sperimentazione, provocazione, magia. David ha giocato da sempre un ruolo fondamentale nell'evoluzione di generi come glam-rock, punk, new wave, synth-pop, dark-gothic, neo-soul, dance. Sir Bowie ha semplicemente seguito, con intelligenza e rispetto, il proprio istinto, forte dell’amore per tutto ciò che è creatività e libertà, provando ribrezzo per facili slogan e finti buonismi. Per insegnarci che la musica è cultura senza confini, essenza da contaminare con il teatro, il mimo, la danza, il cinema, il fumetto, le arti visive. Oltre le regole e le consuetudini.
Anni Sessanta. Gli inizi. Il giovane David, sedotto dal beat inglese ma anche dai vari Cohen e Dylan d’oltreoceano, muove timidamente i primi passi nel mondo della musica, distinguendosi subito per l’originalità della sua voce e delle sue musiche. E’ comunque poco più di un menestrello impegnato, inquieto, attento osservatore in bilico tra psichedelia, revival r’n’b e folk britannico. Ma è con l’arrivo degli anni Settanta che la sostanza della sua arte prende forma e comincia una vera e propria missione rivoluzionaria. Bowie gioca con la propria immagine, indossa lustrini e paillettes, si trucca e fa della ambiguità una corazza con la quale esplorare nuove realtà e possibilità. Maledettamente glam rock, affascinante, seducente, realizza uno dei suoi album più importanti, “Hunky Dory” (manifesto della sua estetica). Arriva poi lo straordinario “The Rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders From Mars”, in cui emergono versatilità vocale e modernità. In questo periodo nascono brani che segnano la stagione migliore della sua lunga carriera, pezzi carichi di sonorità dure e sature e di testi grotteschi (dalla orientaleggiante “The Man Who Sold The World” alla futuristica “Saviour Machine”, fino alla nietzschiana “Superman”).
Gli anni Ottanta vedono l’ennesima trasformazione dell’artista inglese. Mentre ancora cantanti e musicisti si affannano per cercare, invano, di imitare il suo stile glam rock, Bowie è già oltre, lontano anni luce. David prende le sembianze del Duca Bianco, che nulla ha a che vedere con l’alieno asessuato e inarrivabile che ha stregato l’universo e le sue stelle. Ora è elegante, dandy, raffinato, privo di eccessi e di orpelli. L’esperienza di Berlino, tra elettronica e atmosfere brechtiane, lo s-travolge alla fine degli anni Settanta, spingendolo a pubblicare la celebre trilogia Low-Heroes-Lodger, frutto del sodalizio con Brian Eno. Un progetto che influenzerà la scena new wave del decennio successivo. Ma per Bowie è tempo di scavare ancora e di spaziare tra generi e sonorità diverse. “Let’s dance” dunque. In discoteca, in tour, poi con la band Tin Machine. Una nuova clamorosa svolta stilistica che gli frutta un enorme successo commerciale, un raffinatissimo viaggio attraverso il rock'n'roll, il funky, la dance. Svincolato dall'ansia di scalare le classifiche, il dandy di Brixton si dedica alle più svariate attività, dal cinema al teatro, dalla beneficenza all’editoria, collaborando con amici e colleghi, come Paul McCartney, Bono, Pete Townshend, Queen e Charlie Watts. E’ un fiume in piena.
Negli anni Novanta, il Duca si dedica agli album “Black Tie White Noise”, “The Buddha of Suburbia”, “Outside”, “Hearthling”, “Hours”, lavori che non conquistano né la critica, né le classifiche mondiali ma che sono l’ennesima dimostrazione di quanto l’artista e l'uomo Bowie, brillante manager di se stesso, sia alla perenne ricerca di un equilibrio, di una propria identità, con lo sguardo curioso rivolto al futuro e a tutto ciò che ancora è materia inesplorata. Dopo i meno fortunati “Heathen” e “Reality”, usciti all’inizio del nuovo millennio, gli ultimi due regali ai suoi fan: “The Next Days”, album del 2013 e, soprattutto, il disco-testamento “Blackstar”, uscito l’8 gennaio 2016. Un’opera d’arte, come, del resto, è stata tutta la vita di David Bowie.
"Time may change me, but I can't trace time" (David Bowie, "Changes", 1971)